Stranger Things e il coraggio di sentire: perché la confessione di Will non è una perdita di tempo

Stranger Things e il coraggio di sentire: perché la confessione di Will non è una perdita di tempo

Nel dibattito acceso che accompagna ogni grande serie di successo, Stranger Things non fa eccezione. Anzi, con la quinta stagione si è accesa una delle polemiche più rivelatrici degli ultimi anni. Al centro della discussione c’è la confessione emotiva di Will Byers, una scena che molti spettatori hanno liquidato come “inutile”, “fuori trama”, persino “una perdita di tempo” rispetto al ritmo incalzante della lotta contro Vecna.

Ma siamo sicuri che il problema sia davvero narrativo?

La critica più ricorrente è chiara: Stranger Things sarebbe una serie d’azione, horror, avventura. Mostri, dimensioni parallele, tensione continua. In questo contesto, fermarsi sui sentimenti di un personaggio viene visto da alcuni come una deviazione, quasi un rallentamento ingiustificato. Come se l’introspezione fosse un lusso superfluo, e non parte integrante della storia.

Eppure, proprio qui sta il punto.

La confessione di Will non è solo un momento emotivamente potente a livello umano, ed è difficile negarlo, ma è anche profondamente coerente con il cuore tematico della stagione. Vecna non combatte solo con la forza: gioca con i segreti, con ciò che non viene detto, con i traumi repressi. Colpisce dove fa più male, dove i personaggi hanno paura di guardare davvero dentro sé stessi.

Will, in questo senso, è l’opposto di Vecna.

Dove il villain usa il silenzio come arma, Will sceglie la vulnerabilità. Esternare i propri sentimenti diventa un atto di resistenza. Non è un caso che il suo discorso arrivi in un momento di grande fragilità collettiva: parlare, in Stranger Things, non è mai neutro. È sopravvivenza.

Il vero disagio

Forse il vero disagio che questa scena ha generato non riguarda la trama, ma il nostro presente. Viviamo in un’epoca che dichiara di valorizzare l’espressione emotiva, ma che nei fatti la tollera solo se rapida, discreta, possibilmente non scomoda. Quando un personaggio maschile, giovane, ferito, si prende il tempo di sentire e di dirlo ad alta voce, improvvisamente diventa “troppo”.
E allora viene da chiedersi: è davvero Stranger Things ad aver perso il filo, o siamo noi ad aver perso l’abitudine ad ascoltare?

La visione dei fratelli Duffer

La serie dei fratelli Duffer ha sempre raccontato mostri come metafore. Negli anni ’80 di Hawkins, il male non arriva solo dal Sottospra, ma dall’isolamento, dal bullismo e dal non sentirsi visti e capiti. Will è stato, fin dall’inizio, il personaggio più legato a questa dimensione emotiva. Ridurre il suo momento di verità a un riempitivo significa non aver mai davvero capito il suo ruolo nella storia.


In un mondo narrativo dominato dall’urgenza di “andare avanti”, Stranger Things fa una scelta controcorrente: si ferma. E ci ricorda che i segreti non detti possono essere pericolosi quanto i mostri. A volte anche di più.
E forse è proprio questo che dà più fastidio.

Deborah Muratore

La mia passione per il cinema nasce da bambina, quando con mio padre organizzavamo serate a tema dividendo le settimane in categorie. Da allora non mi sono mai fermata, con un debole particolare per gli horror. Empatica e sempre sorridente, amo anche i cavalli, le persone genuine e la creatività in tutte le sue forme.