Dying for Sex: quando la diagnosi è terminale, ma il desiderio è immortale

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Diciamolo senza troppi giri di parole: se ci dicessero che hai un cancro in stadio avanzato, la prima reazione sarebbe probabilmente un mix tra panico, silenzio stampa e abbonamento annuale a Netflix per non pensare troppo. Molly di Dying for Sex invece no.
Molly, davanti a una diagnosi terminale, ha deciso di lasciare il marito e di esplorare il lato più vivo della sua esistenza: il sesso.

Sì, hai capito bene.
Non ha piantato tende spirituali in India, non si è data allo yoga tantrico in una yurta, e no, non ha aperto un profilo Instagram motivazionale con frasi tipo “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.
Ha aperto Tinder.

Dying for Sex: Una trama vera. E anche molto, molto viva.

Dying for Sex Molly

Dying for Sex non è fiction. È la storia vera (e assurda) di Molly, raccontata in formato podcast da Nikki Boyer, la sua amica del cuore, quella con cui condividi tutto, anche le avventure sessuali più imbarazzanti, anche la malattia.
Anzi, soprattutto la malattia. Perché qui si parla di cancro, ma anche di orgasmi multipli. Di terapia oncologica e di bondage. Di paura e di piacere.

E noi, ascoltando, ridiamo. Poi ci commuoviamo. Poi ridiamo di nuovo. E ci chiediamo: ma io, al posto suo, cosa farei?

Quando la morte ti sveglia il desiderio.

Molly, nel pieno della sua battaglia contro il cancro, sceglie di esplorare il proprio corpo, la propria identità, i propri limiti. Non per capriccio. Non per fare “scandalo”. Ma perché, parole sue, “non volevo morire senza aver davvero vissuto”.

E in questa frase c’è tutto.

C’è la fame di vita che nasce quando sai che il tempo stringe.
C’è il coraggio di mandare all’aria le aspettative altrui, anche quelle socialmente “accettabili”.
C’è la voglia di riscrivere la narrazione femminile sulla malattia, troppo spesso intrisa di martiri silenziose, foulard pastello e sorrisi forzati.
Molly invece si mette il rossetto, si infila un corsetto, e va.

Dying for Sex: il sesso come ribellione.

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Il bello di Dying for Sex è che non parla davvero di sesso.
O almeno, non solo.
Parla di libertà. Di identità. Di trauma. Di rinascita. Di amicizia profonda.
Parla di quelle conversazioni che tutti dovremmo avere prima di morire e che invece, per fortuna, Molly ha deciso di registrare prima di vivere (ancora un po’).

E no, non c’è niente di “scandaloso” in quello che fa.
Semmai c’è qualcosa di rivoluzionario: trasformare la fine della vita in un inizio. Anche se breve. Anche se scomodo. Anche se, a tratti, raccontato tra un gemito e una lacrima.

Chi dovrebbe ascoltarlo? Dovrebbe farlo chi ha paura della morte, chi ha paura del sesso, chi ha perso qualcuno, chi si è mai chiesto: “Ma io, che voglio davvero dalla mia vita?” e infine,hi ha bisogno di ridere tra una tragedia e l’altra.

Dying for Sex è un promemoria elegante e spudorato che sì, si può ridere del cancro.
Che si può vivere anche mentre si muore.
E che non esiste un modo giusto per affrontare la fine, esiste solo il tuo modo.

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