“La CGI è da perdenti”: Perchè il Mostro di Frankestein su Netflix è così vero?

CGI- Il Frankestein di Del Toro

Nel cinema contemporaneo la CGI (Computer Generated Imagery) è ovunque: riempie cieli, moltiplica folle, costruisce città e perfino emozioni. Eppure, troppo spesso porta con sé l’etichetta di strumento “freddo”, utile solo a chi “non sa fare cinema vero”. Negli ultimi vent’anni la tecnologia ha dato ai registi poteri praticamente illimitati, ma la libertà totale è anche il suo rischio più grande. Quando gli effetti digitali sostituiscono la realtà invece di potenziarla, lo spettatore smette di credere a ciò che vede. È la linea sottile in cui la magia si spezza e la finzione si mostra nuda.

Eppure, paradossalmente, più la CGI è efficace, meno ce ne accorgiamo. La sua grandezza sta proprio nell’invisibilità: la CGI migliore è quella che non si nota, che sostiene la narrazione senza rubarle la scena. Grandi autori come David Fincher o George Miller l’hanno capito: usano il digitale non per stupire, ma per completare ciò che l’occhio della macchina da presa non può catturare. Così la tecnologia diventa linguaggio, non decorazione.

Guillermo del Toro e il mostro “più umano di tutti”

È da qui che parte Guillermo Del Toro nella sua nuova rivisitazione di Frankenstein per Netflix, una delle pellicole più attese degli ultimi anni. Il regista messicano, da sempre affascinato dai mostri e dagli esseri “diversi”, ha spiegato che la sua idea della Creatura nasce da una “fusione di corpi e memorie”. Non vuole rifare il classico di Boris Karloff, ma creare un essere malinconico, poetico e fragile, dove le cicatrici e le giunture diventano la mappa delle sue origini.

“Il Mostro è l’uomo più innocente mai creato — e il più odiato, solo per il suo aspetto,” ha detto del Toro.

L’obiettivo è costruire “un corpo in cui ogni parte racconti una vita perduta”. Per riuscirci, del Toro fonde trucco prostetico, effetti pratici e CGI di precisione. La Creatura, interpretata da Oscar Isaac, nasce da un corpo fisico reale arricchito da interventi digitali mirati: movimenti oculari, tessuti che respirano, luccichii sottopelle, piccoli tremiti impercettibili. È una CGI discreta, al servizio dell’emozione e del realismo, non un’esibizione di virtuosismo tecnico.

Gli effetti speciali come linguaggio

Come ha spiegato Dan Laustsen, direttore della fotografia già in Crimson Peak e La forma dell’acqua, il film è girato in uno stile gotico naturalista, con luci morbide e scenografie costruite interamente in studio. Tutto è pensato per valorizzare la materia e la luce reale, cancellando ogni riflesso che possa tradire l’intervento digitale. In alcune sequenze, la CGI diventa persino poetica: serve ad animare nebbie, memorie e sogni del Mostro più che a creare azione. Il caso di Frankenstein dimostra il grande fraintendimento che grava sulla CGI: non è mancanza di artigianato, ma evoluzione dell’artigianato stesso. Il pubblico spesso non ne riconosce il valore proprio perché le sue migliori applicazioni sono invisibili.

La sottile linea tra magia e artificio

Quando è fatta bene, la CGI sostiene la credibilità visiva di una scena — come uno skyline ricostruito, un riflesso in una finestra o una folla generata al computer — ma raramente viene notata. Quando invece è troppo visibile, risulta “falsa” e rompe l’incanto. Non è un problema della tecnologia, ma di regia e sensibilità estetica: troppa CGI stacca lo spettatore dal film.

È anche una questione culturale. Molti spettatori attribuiscono più valore agli effetti pratici, percepiti come veri e tangibili, rispetto a ciò che nasce dentro un computer. Eppure, creare una buona CGI significa mesi di modellazione, simulazioni di luce, fisica e texture: è un lavoro artigianale, solo in un linguaggio diverso.

Quando la tecnologia serve la narrazione — come in Blade Runner 2049 o Gravity — diventa arte. Dove invece è puro spettacolo, diventa sterile decorazione.

Gli esempi invisibili della CGI che sicuramente non hai notato

Esistono film in cui la CGI è così ben integrata che quasi nessuno se ne accorge. In The Social Network (2010) di David Fincher, la faccia di uno dei gemelli Winklevoss è completamente digitale: un doppio perfetto che lo spettatore non nota. In The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese, le folle e i cieli di New York, così come il leone dell’apertura, sono ricostruiti digitalmente. In 1917 (2019) di Sam Mendes, l’effetto del “piano sequenza” è un’illusione digitale complessa, mentre in Roma (2018) di Alfonso Cuarón interi quartieri di Città del Messico anni Settanta sono stati ricreati in computer grafica per restituire autenticità storica. Tutti esempi in cui la CGI lavora in silenzio, dipingendo il reale senza mostrarsi.

Qual è allora il vero volto del digitale?

Il Frankenstein di Guillermo Del Toro ci ricorda che la CGI non è l’opposto della realtà, ma il suo alleato più discreto. La sua missione non è farsi notare, ma farci credere di aver visto davvero. Quando smette di essere puro effetto e diventa linguaggio poetico, la tecnologia torna a fare ciò che il cinema fa da sempre: dare forma visiva alle emozioni.

In questo senso, il Mostro di Del Toro è il simbolo perfetto del cinema digitale moderno: un corpo imperfetto, fatto di pezzi diversi, che usa l’illusione per parlarci con verità.

Umberto Caiazzo

Scrivere è da sempre il mio modo naturale di esprimermi e di confrontarmi con il mondo. Appassionato compulsivo di Film, serie Tv e qualunque contenuto inerente al mondo del cinema. Nerd dalle scuole medie, sempre interessato a far sapere la propria opinione e soprattutto sapere quella degli altri!