“Avatar: Fuoco e Cenere” è arrivato nelle sale, tra chi lo attendeva con ansia e chi già urlava al flop, non ha deluso le aspettative. Attraverso le vicende su Pandora, Cameron ci ricorda ancora una volta, cosa vuol dire appartenere davvero a qualcosa.
L’attesa per la nuova fatica firmata James Cameron si è finalmente conclusa. Questa non sarà solo una recensione, nè tantomeno un semplice elogio al film (il migliore della saga, per noi), sarà invece una pura riflessione. Probabilmente nell’epoca del consumismo digitale e dell’apatia social(e) in cui viviamo, questo sarà il più incompreso dei 3. Perchè “incompreso”? Perchè questa parola?
La risposta è una una: questo film tenta, forse più degli altri, di causare in chi guarda, l’ormai famosa “Depressione post-Pandora”, quel calore che si prova per tutta la durata del film. Lo fa ricordandoci chi siamo (o chi potremmo essere), toccando corde nascoste nell’animo umano, mostrandoci un mondo vivo, vivo per davvero.
Una famiglia lotta tra l’accettazione del lutto e la salvezza di ciò che ama, tra preservazione delle proprie origini, connessione totale con la natura e soprattutto, l’accettazione del diverso.

Il Popolo della Cenere: il male non segue mai un colore
Il primo pugno nello stomaco è stato uno: la divisione tra bene e male non è solo una sorta di linea retta, tracciata tra 2 pianeti. Incontrare la nuova tribù chiamata “Popolo della Cenere”,smonta del tutto l’idea che i Na’Vi siano sempre “buoni” e perfetti. Cameron ci sbatte in faccia, come non sia l’origine di un essere a rendere cattivi a priori, e non è prerogativa umana esserlo: è il dolore a rendere cattivi. Questi Na’vi, forgiati dal fuoco e dai danni che esso comporta, sono lo specchio distorto di ciò che la sofferenza può fare a qualcuno.
Questo messaggio passa per gran parte del film, attraverso le parole e le azioni di Varang (Oona Chaplin), spietata leader del Popolo della Cenere (che odierete per tutta la durata del film, villain e interpretazione riusciti, quindi). Varang rappresenta un punto di rottura: la fine dell’innocenza.
La dimostrazione vivente che anche su Pandora il dolore, se prolungato, può sporcare lo spirito. Non solo toccare “il metallo”. Il messaggio è chiaro e va ribadito ancora e ancora: non è la razza a fare di qualcuno il cattivo su cui puntare il dito.
Il peso di chi resta: l’eredità di Lo’ak
E in mezzo a questo fuoco, qualcuno cammina sulle braci (e a volte sulla cenere): Lo-Ak, il figlio “ribelle” che ora porta sulle spalle un peso davvero schiacciante, la morte di quel fratello perfetto (Neteyam) ormai defunto. Spesso guardando il suo modo di agire, impulsivo, deciso ma fragile, si percepisce il peso di chi ha perso molto e pensa solo “perchè?”.
Facile rispecchiarsi in lui al giorno d’oggi, con le nostre responsabilità, voglia di fare, drammi interiori, spesso trascurati da chi c’è attorno, in un mondo che corre e non crede mai a chi lo insegue. Sì, il riferimento alla Gen Z non è velato. Una Gen Z che oggi in varie parti del mondo, combatte per la propria rivalsa, per un lutto, le possibilità mai avute, che si porta dentro dalla sua nascita. Lui, come anche la nostra generazione lotta e ci riesce: riesce a farsi finalmente valere mostrandosi il leader di domani

Il ponte tra due mondi
Per anni ci siamo chiesti: “il figlio del nemico, può essere davvero uno di loro?”. Può mai il “ragazzo scimmia”, incapace di respirare senza maschera, “colpevole” di aver salvato il padre (davvero, Spider?) , coinvolto nella morte di Neteyam (morto per salvarlo) e quindi odiato da Neytiri, diventare davvero uno dei Na’Vi?
La risposta a quanto pare (rullo di tamburi) è Sì. E quante ne ha dovute passare. Perchè nell’immensa rete di cui tutti su Pandora sembrano far parte, Spider non ha mai del tutto trovato il suo posto. Il Figlio del Popolo del Cielo, quei cattivi “con mani piccole, cattiveria e orrenda pelle rosa” per citare il film, tanto disprezzati e temuti, rimasto nella giungla (Tarzan?) che si sente un Na-Vi in un corpo di carne. E all’improvviso succede il miracolo: Spider finalmente riesce a respirare (ma non vi diremo come, dovrete vederlo voi).
Il diverso, il “parassita” del pianeta, viene accettato da esso. Eppure, l’accettazione di Eywa non basta… serve quella della “madre”, ovvero Neytiri. Il suo percorso non è il classico seguito nei capitoli precedenti, la nostra eroina senza macchia è sì un’eroina, ma anche una madre ferita, pronta ad ucciderlo in nome del proprio figlio scomparso.
Ancora una volta torniamo all’origine del nostro discorso, ovvero che anche i buoni possono essere cattivi quando perdono tutto. Questo nel cinema odierno non è scontato, fidatevi.
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Non bestie da soma, ma sorelle e fratelli
Arriviamo finalmente al motivo reale per cui l’articolo ha quel titolo, perchè ha toccato, al punto di uscire dalla sala in lacrime, tasti nascosti dell’animo di me, che vi sto scrivendo, che nemmeno conoscevo. Una vita intera, con la vista appannata, inseguendo una bellezza ideale, tecnologica, frenetica, come se l’uomo fosse al centro del mondo, scordando una cosa: gli altri animali. È stato davvero come sentire un vuoto dentro inspiegabile, un istinto risvegliato.
Il terzo capitolo di Avatar distrugge la nostra arroganza di specie. Vedere di nuovo quelle matriarche degli oceani (i Tulkun), creature maestose e intelligenti, che l’uomo vede solo come una risorsa da sterminare per profitto (e sì, si parla di balene come di ogni altro animale e specie attorno a noi) braccate e ferite, è davvero stato toccante.
Vedere i Na’vi piangere per loro non come si piange un animale domestico, ma come si piange un nonno , una nonna, un qualunque caro, può e deve farci aprire gli occhi. Su Pandora non esiste “l’uomo e l’animale”, esistono solo abitanti diversi della stessa casa. Esistono “fratelli e sorelle” perchè è il pianeta ad aver partorito la vita. Ed è quella vita a vivere sul pianeta.
Ci sono scene, una scena in particolare per cui non faremo spoiler, in cui la connessione è totale, in cui si sente che la “bestia” ha un’anima più grande di chi vorrebbe farne “100 miliardi di dollari da queste acque”.
Il cielo che combatte insieme a noi
E poi c’è il cielo. C’è quella collaborazione incredibile tra le tribù e gli Ikran, gli uccelli predatori. In questo nuovo capitolo non sembra nemmeno più che i Na’Vi li stiano comandando: è una vera e propria alleanza. Vedere queste creature alate lanciarsi in una guerra, morire, lottare per proteggere i Na’Vi ne è la prova. La natura si ribella al metallo, gli invasori crollano davanti a una danza perfetta, un pianeta che non cede perchè è il pianeta stesso a ribellarsi.

E la nostra via qual è?
Dov’è finito tutto ciò? La provocazione di questo articolo, più che una recensione come tante, è una: gli animali e la natura sono solo selle da montare, carne da macellare, mari da inquinare, boschi da abbattere, o ci siamo dimenticati chi siamo e chi sono i nostri fratelli e sorelle?
Abbiamo davvero chiuso occhi e orecchie davanti al male e al dolore? Come sarebbe il nostro di mondo, se prendesse anche solo una parte da Pandora? Cosa saremmo se per un secondo smettessimo di cercare gli alieni, capendo che gli alieni del nostro mondo siamo noi? Siamo pronti per questo discorso o da ancora fastidio a qualcuno?
Noi per farvi avere le risposte, non consigliamo, ma chiediamo di andare a vederlo senza la solita pretesa del film dell’anno, perchè, per quasi citare Lazza (no, non sarà un gioco di parole su Cenere): questo Avatar sarà il film degli anni. E lo capiremo tardi.
Editoriale a cura di Elia Meleleo.

