
Lo ammetto senza vergogna: non ho mai cucinato in una cucina professionale, ma dopo aver visto The Bear mi sveglio la mattina con voglia di urlare “Yes, Chef!” ai miei cani e ai miei tre bimbi e controllare che la mia mise en place per il caffè sia in ordine. Colpa di lui. Di Carmy. Di Carmen Berzatto, l’uomo che ha trasformato l’ansia in arte.
Perché se c’è un personaggio che negli ultimi anni ha saputo rappresentare perfettamente il caos interiore dell’essere umano contemporaneo: bello, fragile, talentuoso e completamente a pezzi, è proprio lui: lo chef col cuore spezzato, la giacca da lavoro sporca di sugo e il passato appeso al collo come una collana di piombo.
Carmen Berzatto: un cuoco stellato con l’anima bruciata

Carmy non è solo un protagonista: è un campo di battaglia. Un ragazzo cresciuto all’ombra di un fratello troppo grande da imitare e troppo amato per essere dimenticato. Dopo il suicidio di Michael (un’assenza che pesa più di qualunque presenza), Carmy torna a Chicago e prende in mano The Beef, il ristorante di famiglia, più simile a una trincea che ad un’attività commerciale.
E lui, che fino a poco prima preparava piatti con pinzette da laboratorio e silenzio religioso in cucine stellate, si ritrova a urlare per farsi ascoltare da Richie, affrontare ordini sbagliati, macchinari rotti e dipendenti che non sanno nemmeno chi sia Auguste Escoffier. Il paradiso degli chef, insomma.
La cucina come specchio rotto

Carmy non cucina solo per servire un piatto: cucina per sopravvivere. Perché è lì, tra i coltelli ben affilati e i comandi urlati, che riesce a dare un senso (seppur temporaneo) al casino nella sua testa.
Il problema è che, anche lì, non si salva. Anzi: in cucina Carmy implode. Vive l’ansia come se fosse un ingrediente necessario, urla più a sé stesso che agli altri, pretende la perfezione come se potesse cancellare il passato. Spoiler: non funziona.
Ma è proprio questo che lo rende così incredibilmente umano. Perché quante volte, invece di elaborare il dolore, ci buttiamo a capofitto nel lavoro? Quante volte confondiamo il controllo con la guarigione?
Il fascino tossico dell’anti-eroe che prova a guarire

Dimenticatevi gli chef televisivi col sorriso sbiancato e la battuta pronta: Carmy è il contrario. È silenzioso, incasinato, malinconico, bello (sì, dai, è oggettivo), ma soprattutto incapace di salvarsi da solo. E nonostante questo, o forse proprio per questo, è impossibile non fare il tifo per lui.
Perché mentre manda tutto in frantumi, lo vedi che ci prova. Con Sydney, con sua sorella Natalie, persino con Richie (che definire “difficile” è riduttivo). Carmy cerca di costruire qualcosa che assomigli ad una famiglia, anche se lui una vera famiglia non l’ha mai avuta.
The Bear: più che una serie, un attacco di panico ben scritto
Guardare The Bear è come assistere a un turno di 12 ore in cucina senza avere mai un attimo di respiro. E Carmy è il nostro Virgilio in questo inferno culinario. Ti accompagna, ti schiaccia, ti fa arrabbiare, ma alla fine, chissà come,riesce anche a farti commuovere.
Sarà perché in fondo sappiamo tutti com’è avere delle aspettative impossibili da soddisfare. Sapere che si può essere bravissimi in qualcosa e sentirsi comunque inadatti. Avere successo, ma non pace.
Una nota personale, da chi lo guarda (e un po’ lo capisce)
Carmy mi fa venire voglia di abbracciarlo e dirgli: “Va tutto bene, puoi anche sbagliare un risotto”. Ma so già che mi risponderebbe con uno sguardo fisso nel vuoto, magari mentre si chiede se mettendo una foglia di prezzemolo in più, renderà il piatto veramente suo.
E forse è proprio questo il punto: Carmy è uno di noi. Solo che, al posto di affogare nell’ennesima mail di lavoro o in una relazione disfunzionale, affoga nella besciamella e nell’ansia da servizio. Elegante, no?
In conclusione: Carmy sei tu, siamo noi…
Se siete arrivati fin qui e ancora non avete visto The Bear, fatevi un favore: preparatevi un panino, respirate a fondo… e iniziate. Se invece lo conoscete già, allora capite perché ogni volta che qualcuno dice “Yes, Chef”, sentiamo un brivido, un po’ di rispetto, un po’ di trauma, un po’ di amore.
Perché in fondo, Carmy non è solo il protagonista di una serie. È l’emblema di una generazione che, tra burnout, perfezionismo e voglia di non deludere nessuno, cerca solo un posto dove respirare. Magari in una piccola cucina di Chicago, dove tutto è difficile… ma possibile.
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