“La Valle dei sorrisi” è l’horror che ci impone di stare veramente bene.

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C’è un villaggio, su in montagna, dove nessuno soffre.
Tutti sorridono, si abbracciano e dicono che va tutto bene. Ogni settimana, però, c’è un rito: un ragazzo assorbe il dolore degli altri. Non si lamenta mai. Sorride, anche lui.

La valle dei sorrisi, il nuovo horror diretto da Paolo Strippoli, è molto più di un film di paura. È una radiografia disturbante del nostro tempo, dove il dolore è diventato un tabù e la serenità una prestazione da esibire. Una favola nera in cui la vera mostruosità non viene dai boschi o dal folklore, ma dall’ansia collettiva di sembrare felici a ogni costo.

La valle dei sorrisi
Michele Riondino, Giulio Feltri

Un horror con il cuore in trappola

Sergio è un insegnante trasferito a Remis, villaggio remoto tra le montagne friulane. Qui tutto sembra perfetto: la gente è gentile, nessuno si arrabbia, tutti si dicono “bene, grazie”. Ma è un equilibrio fragile, tenuto in piedi da un adolescente, Matteo, che ogni settimana riceve gli abbracci degli abitanti, non per affetto, ma per assorbire il loro dolore.

Il dolore come bene comune

In La valle dei sorrisi, Matteo non è solo un ragazzo: è un contenitore. Una discarica emotiva. È l’unico autorizzato a soffrire, ma in silenzio. Remis lo venera e lo isola, come spesso accade a chi ha un’intelligenza emotiva “scomoda”.
È qui che il film diventa simbolico: il dolore non viene condiviso, ma devoluto, come una tassa. Non si affronta, si esternalizza.
Questo meccanismo non è così lontano dalla realtà.

Sui social, nelle comunità, nelle famiglie, il dolore spesso deve essere nascosto, anestetizzato, delegato a una figura che se ne occupa per noi: terapeuti, influencer motivazionali, amici resilienti. Il film mette in discussione l’idea che la felicità sia un diritto individuale, mostrando quanto possa diventare tossica se imposta.

La bellezza inquieta del folk horror

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Paolo Strippoli

Strippoli costruisce il suo mondo con un’estetica rarefatta e fiabesca. La montagna non è minacciosa, ma protetta, isolata, quasi magica. La comunità di Remis ricorda i villaggi del folk horror, dove il passato e la superstizione plasmano il presente.

Ma La valle dei sorrisi non cerca lo spavento facile. È un horror spirituale, il male non è un’entità esterna: è nel patto silenzioso che tiene insieme una comunità. Il male è il compromesso che tutti accettano per evitare di guardarsi dentro.

Chi ha il diritto di non stare bene?

Un altro elemento fortissimo è la relazione tra Sergio e Matteo, tra l’adulto e l’adolescente. Da una parte, l’uomo che ha rimosso il suo dolore per sopravvivere ,dall’altra, il ragazzo che viene idolatrato proprio perché non può farlo.
Qui si tocca anche il tema dell’identità: Matteo è queer, nel senso più profondo del termine: ambiguo, sensibile, non conforme. È il diverso, il corpo su cui la società proietta il proprio disagio, come fosse un capro espiatorio elegante.

La domanda che resta è potente: in una società che punisce la fragilità, chi è davvero libero? E chi paga il prezzo della nostra pace apparente?

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La valle dei sorrisi: l’abbraccio o la fuga?

La valle dei sorrisi non dà risposte facili. Il suo finale è un’apertura, non una chiusura. Un invito a guardare dentro quella maschera che chiamiamo “benessere” e a chiederci: cosa saremmo disposti a sacrificare per non soffrire più?

Forse il vero atto rivoluzionario oggi non è sorridere. Ma permettersi di piangere.

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