A cura di Elia Meleleo.
L’attesa è finita. È appena sbarcato nelle sale, Fantastici 4: Gli Inizi che si presenta come l’ancora di salvezza di un Marvel Cinematic Universe (MCU) in cerca di una nuova identità. Sotto la regia di Matt Shakman, il film portava il peso di aspettative colossali: onorare la Prima Famiglia Marvel e, al contempo, rivitalizzare un franchise percepito da molti in affanno.
Il risultato è un’opera di una bellezza visiva quasi struggente, un film che ridefinisce l’estetica dell’MCU ma che, proprio come il suo protagonista Reed Richards, fatica a trovare un equilibrio tra la mente e il cuore.
Mentre il consenso generale, riflesso in un solido 89% su Rotten Tomatoes, parla di un successo, uno sguardo più attento rivela una realtà più complessa. Il punteggio di 65 su Metacritic suggerisce che, sotto la superficie scintillante, si celano delle fragilità narrative significative.
Questa recensione esplora i trionfi e i paradossi di un cinecomic destinato a far discutere: un inizio meraviglioso, ma forse non ancora del tutto fantastico.
Un Trionfo di Stile: Il Ritorno agli Anni ’60 come Atto di Fede
Il pregio più innegabile di Fantastici 4: Gli Inizi è la sua sontuosa e audace direzione artistica. La scelta di ambientare la storia in un’utopia retrofuturista anni ’60 non è un semplice vezzo stilistico, ma la più potente dichiarazione d’intenti del film. In un universo cinematografico spesso criticato per la sua omogeneità visiva, Shakman opera un reset totale, immergendo lo spettatore in un mondo che odora di “old Hollywood” e che respira cinema in ogni inquadratura.
Questa estetica non è casuale. Attinge direttamente all’ottimismo dell’Era Spaziale, la stessa culla culturale che nel 1961 vide la nascita dei Fantastici Quattro di Stan Lee e Jack Kirby. Il design si ispira alle esposizioni “Futurama” della General Motors, creando un mondo tangibile, vibrante e stilisticamente coerente. Ogni dettaglio, dai costumi ai manifesti di blockbuster fittizi che tappezzano la New York del film, contribuisce a creare un’atmosfera unica.
Questa scelta funge da correttivo strategico alla “stanchezza da supereroi”, riportando la Marvel alle sue origini creative e promettendo un’esperienza più matura, ponderata e visivamente ricercata. L’estetica non è solo uno sfondo, ma un manifesto programmatico: ricostruire il futuro tornando ai principi fondamentali.
Un Cast Perfetto per una Famiglia Imperfetta
Se la confezione è impeccabile, il contenuto emotivo è affidato interamente a un cast in stato di grazia.
L’alchimia tra i quattro protagonisti è il vero miracolo del film, una “chimica solida come una roccia” che riesce a suggerire una profondità che la sceneggiatura lascia spesso inesplorata. Gli attori sono costretti a “riempire i vuoti” di uno script che asserisce i legami familiari più che costruirli.
Pedro Pascal regala un Reed Richards tormentato e “emotivamente elastico”. Sfruttando la sua abilità nel ritrarre figure paterne vulnerabili, infonde nel personaggio un peso e una malinconia che vanno oltre le battute del copione.
Vanessa Kirby è il centro gravitazionale del film. La sua Sue Storm è una figura di rara forza e determinazione, un’ancora politica ed emotiva capace di “salvare una scena con la sola forza di un silenzio”.
Joseph Quinn (Johnny Storm) e Ebon Moss-Bachrach (Ben Grimm) completano il quartetto con una dinamica fraterna palpabile e genuina. Moss-Bachrach, in particolare, riesce a infondere una straordinaria vulnerabilità nel gigante di roccia, portando i “pezzetti più teneri e tremolanti” di sé per dare un’anima alla Cosa.
Il loro talento, tuttavia, serve principalmente a mascherare le lacune di una sceneggiatura che introduce temi maturi come la maternità e l’identità, ma li tratta con una fretta che ne depotenzia l’impatto.
Il Paradosso Narrativo: Quando l’Ambizione Supera la Scrittura
Qui emerge il problema centrale del film. Shakman tenta di fondere due anime del fumetto: l’epica cosmica di Lee e Kirby con l’approccio intimo e familiare della recente e acclamata run di Ryan North. L’intenzione è nobile: raccontare di una famiglia che, quasi per caso, ha superpoteri. L’esecuzione, però, è problematica.
Il film sceglie di iniziare la narrazione in medias res, con la squadra già formata e operativa. Questa si rivela una scelta fatale.
L’approccio di North nei fumetti, pur partendo da un team esistente, funziona perché decompone la narrazione, dedicando spazio ai singoli individui prima di riunirli. Il film, al contrario, vuole l’intimità di North ma la inserisce in una trama cosmica alla Kirby senza concedere ai personaggi lo spazio necessario per definirsi. Il risultato è un legame familiare che appare più affermato che dimostrato, un presupposto che lo spettatore deve accettare a priori invece di viverlo. La narrazione si sente troppo contenuta per la sua minaccia epica e troppo affrettata per i suoi momenti intimi.
Galactus: Un Dio Magnifico ma Senza Peso Emotivo
La rappresentazione di Galactus è l’emblema perfetto di questo squilibrio. Visivamente, il Divoratore di Mondi è un trionfo assoluto. Fedele alla sua concezione originale di “forza della natura” insaziabile, la sua apparizione è maestosa, terrificante e genera un genuino sense of wonder. Le sequenze spaziali sono mozzafiato.
Tuttavia, è proprio qui che il film mostra il fianco. Per quanto la minaccia sia visivamente colossale, la narrazione non riesce mai a generare una suspense proporzionata.
Manca quel fondamentale momento di panico nello spettatore, quel disperato “Oddio, e ora come faranno?” che definisce i migliori film di genere. Ogni pericolo appare come un problema la cui soluzione è già stata pensata, ogni ostacolo sembra un passaggio obbligato di un piano più grande. Lo spettatore ha la costante sensazione di assistere a uno spettacolo magnifico ma pre-ordinato, a un conflitto la cui risoluzione è già scritta, privandolo di quella tensione viscerale che trasforma un film da guardare in un film da vivere.
Il Futuro è Destino: La Scena Post-Credits che Cambia Tutto
Se il film lascia qualche dubbio, il suo futuro promette scintille. È la scena post-credits, però, a rivelare la vera, audace direzione futura, introducendo il più grande villain della Marvel, il Dottor Destino, che sarà interpretato da Robert Downey Jr.
Questa non è una semplice trovata, ma un cortocircuito metanarrativo di potenza inaudita. Affidare il ruolo del monarca di Latveria, una figura shakespeariana di intelletto e orgoglio smisurati, all’attore che per un decennio è stato l’anima dell’MCU, crea una posta in gioco istantanea. Il conflitto futuro non sarà più solo una lotta per la sopravvivenza, ma una battaglia per l’anima stessa del franchise.
Si profila una guerra ideologica tra l’umanesimo imperfetto di Reed Richards e la visione autocratica di un Destino che porta il volto dell’eroe fondatore di questo universo. È il segnale più forte che la Saga del Multiverso sta per entrare nel vivo.
Conclusione: Vale la Pena Vedere i Nuovi Fantastici 4?
Fantastici 4: Gli Inizi è, senza dubbio, il film di cui l’MCU aveva bisogno. È un’opera matura, visivamente sontuosa e un “passo avanti enorme” che ricalibra la bussola estetica della saga. Rappresenta una boccata d’aria fresca, un cinecomic che incanta lo sguardo e pone fondamenta solidissime per il futuro.
Tuttavia, non è il capolavoro che la sua ambizione prometteva.
È un film “quasi fantastico”, un’opera che privilegia il concetto sulla sua esecuzione emotiva, lasciando una sensazione di potenziale inespresso. Lascia lo spettatore appagato nello sguardo ma con una certa fame di profondità.
È un inizio meraviglioso ma imperfetto, un punto di partenza che lascia con una grande speranza: che il prossimo capitolo possa costruire su questa magnifica base per consegnarci una storia che non sia solo spettacolare, ma finalmente e pienamente, fantastica.
Luglio tra l’uscita del Superman di James Gunn e questo nuovo inizio per l’MCU non ha comunque tradito le nostre aspettative, aprendo a un futuro davvero promettente per il mondo dei Cinecomics.